Black non è solo il Friday, ma anche il futuro.

Il fast fashion non è un affare per nessuno: sta distruggendo il clima, devastando i terreni, prosciugando le risorse idriche, inquinando gli oceani.

Inutile nasconderlo, abbiamo pensato tutti di approfittare di questi giorni del #BlackFriday per rifarci il guardaroba. Abbiamo aperto i cassetti e pensato: “ora compro qualcosa di nuovo con gli sconti”. L’abbigliamento è ormai tra i prodotti più venduti di questa giornata annuale dedicata allo shopping. Ed è difficile, diciamocelo, resistere al fascino di un buon affare.

Ma il prezzo più alto lo sta pagando il pianeta!

Conoscere gli impatti che la “moda veloce” sta avendo sull’ambiente, dalla produzione allo smaltimento dei rifiuti tessili, è un primo passo per ragionare sulle soluzioni e scoprire le alternative e le buone pratiche che già esistono.

Acque sprecate e inquinate

La produzione tessile ha bisogno di acqua. Molto acqua. Per fabbricare una sola maglietta di cotone, secondo alcune stime, sono necessari 2.700 litri di acqua dolce, quanto una persona dovrebbe bere in 2 anni e mezzo. Per un solo paio di jeans ugualmente vengono utilizzati ben 11mila litri di acqua.

Secondo i dati raccolti dall’Ue, si stima che l’industria tessile e dell’abbigliamento abbia utilizzato a livello globale 79 miliardi di metri cubi di acqua (dati 2015). Stime sicuramente destinate ad aumentare vista la richiesta costante. Nel 2020, il settore tessile è stato la terza fonte di degrado delle risorse idriche.

Non solo stiamo prosciugando le risorse idriche, ma le stiamo inquinando.

L’utilizzo delle fibre sintetiche è cresciuto molto nel settore dell’abbigliamento, arrivando a rappresentare il 61% della domanda di fibre a livello globale.

Fibre come poliestere, acrilico e poliammide, vengono “erose” attraverso i lavaggi in lavatrice e poi drenati nei sistemi idrici. La Norwegian environment agency ha rilevato che ogni singolo indumento, a ogni singolo lavaggio, rilascia fino a 1.900 fibre sintetiche. Per questo, secondo la stessa fonte, le emissioni di microplastica nelle acque derivate dal lavaggio di indumenti supera quello dei cosmetici, costituendo il 35% di tutte le microplastiche in acqua. Un unico carico di bucato di abbigliamento in poliestere può comportare il rilascio di 700mila fibre di microplastica che possono finire nella catena alimentare.

Senza contare da altri fattori di inquinamento delle acque dovuti ai vari processi a cui i prodotti vanno incontro, come la tintura e la finitura con impatti devastanti sulla salute delle persone, degli animali e degli ecosistemi dove si trovano le fabbriche.

Suolo e biodiversità a rischio

Per rispondere alla domanda sempre più alta di abbigliamento a basso prezzo si produce troppo cotone, la cui coltivazione è una delle attività connesse alla moda meno sostenibili.

Il cotone è la seconda fibra più comune al mondo e la sua coltivazione è una delle attività connesse alla moda meno sostenibili. Non solo per la quantità d’acqua necessaria (5mila litri per ogni chilogrammo di materiale), ma per l’uso di pesticidi (il 16% di tutti quelli usati in agricoltura a livello globale) e insetticidi. L’impiego di pesticidi non caratterizza, infatti, solo il food system, ma anche la produzione di tessuti.

Per non parlare dell’ampia diffusione di semi geneticamente modificati, che nel 2018 sono arrivati a coprire il 94% della superficie dedicata alla coltivazione del Gossypium hirsutum, la specie coltivata di cotone più diffusa al mondo.

Stiamo distruggendo il clima.

Dalla produzione al trasporto a pagarne le spese è il clima: il 10% delle emissioni di gas serra è causato dalle industrie di abbigliamento, più di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, gli acquisti di prodotti tessili nell’intera Unione europea hanno generato circa 270 kg di emissioni di CO2 per persona (dato 2020).

Discorso a parte merita il solo settore dei trasporti. I camion che trasportano i nostri pacchi verso magazzini o depositi in tutta Europa solo in questi giorni di shopping sfrenato sono la causa di emissione di 600mila tonnellate di CO2 in più rispetto a una settimana media stando a calcoli fatti da Transport & Environment.

E, purtroppo, gli impatti della moda non sostenibile non si fermano qui. Dalle condizioni cui spesso sono costretti i lavoratori del settore (soprattutto in determinati Paesi del mondo) allo smaltimento dei rifiuti tessili prodotti.

Black non è solo il Friday, ma anche il futuro.

Le alternative ci sono. #CambiamoStile



Andrea Minutolo

Andrea Minutolo

Geologo, con una lunga esperienza nel campo delle indagini in situ, prove di laboratorio, analisi ambientali. Attualmente è il coordinatore dell'ufficio scientifico di Legambiente dove segue in particolre i temi del rischio idrogeologico, bonifica dei siti inquinati, rifiuti, inquinamento atmosferico, attività per l’estrazione di idrocarburi.


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