Quanti pesticidi ci sono nei campi agricoli italiani?

Monitorati da nord e sud 12 suoli agricoli convenzionali e altrettanti terreni biologici: il bio si conferma come modello di riferimento per l’intero settore. Nei campi convenzionali trovate ben 20 sostanze chimiche di sintesi tra insetticidi, erbicidi e fungicidi. 

Senza un suolo fertile e sano non c’è agricoltura. Nel momento in cui la crisi internazionale mette al centro il tema dell’approvvigionamento del cibo, occorre riportare l’attenzione su questa risorsa necessaria e non rinnovabile. Il suolo impiega infatti fino a mille anni per rigenerare la fertilità persa per inquinamento o desertificazione. Secondo la Global Soil Partnership della FAO, il 33% del suolo terrestre è già degradato, percentuale che potrebbe salire al 90% entro il 2050. E sempre la FAO avverte che la vitalità del suolo, che si traduce soprattutto nella presenza di miliardi di microrganismi per centimetro quadrato, è messa a rischio anche dalle sostanze chimiche di sintesi utilizzate in agricoltura: “l’uso eccessivo e improprio dei pesticidi causa danni indesiderati a specie non target (ndr: specie che non sono considerate dannose per l’agricoltura), mentre la persistenza nell’ambiente e i residui tossici possono impattare su specie utili e organismi non target, come gli umani, e possono contaminare le acque e i suoli a scala globale”.

E allora, qual è la situazione dei suoli italiani? La campagna di comunicazione e sensibilizzazione sulla salute dei suoli di Cambia la Terra, il progetto di FederBio con Legambiente, Lipu, Medici per l’ambiente, Slow Food e WWF, ha analizzato 12 suoli agricoli convenzionali comparandoli con altrettanti terreni biologici contigui e adibiti alle stesse colture, in un monitoraggio a carattere dimostrativo, su un totale di 24 aziende agricole.

I risultati, in breve

Nei campi convenzionali sono state ritrovate ben 20 sostanze chimiche di sintesi tra insetticidi, erbicidi e fungicidi. La sostanza più rilevata è il glifosato, che compare in 6 campi convenzionali su 12, seguito dall’AMPA, un acido che deriva dalla degradazione del glifosato. Si tratta dell’erbicida più usato al mondo , che ha effetti sulla salute degli ecosistemi e su quella umana, e che è rientrato nella lista delle sostanze ‘probabilmente cancerogene’ dello Iarc di Lione (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro). Delle altre 18 sostanze chimiche di sintesi ritrovate, ben 5 risultano revocate da anni: due, il famigerato DDT e il suo metabolita DDE (sostanza che proviene dal degrado della molecola originaria), resistono in un campo presumibilmente da 44 anni, in quantità non trascurabili. Le altre (permetrina e imidacloprid), vietate rispettivamente nel 2001 e nel 2018, sono state ritrovate in un campo di pomodori; l’ultima (oxodiazon) revocata nel 2021, in un pereto.

Per quanto riguarda i campi biologici, le sostanze di sintesi rilevate sono solo tre, tra cui un insetticida contro le zanzare, probabilmente proveniente dalle abitazioni vicine, e, in uno stesso, campo DDT e DDE. Si tratta con ogni evidenza di contaminazioni accidentali, da cui il bio cerca da sempre di difendersi.

A presentare i risultati della campagna nel corso del convegno “La tutela del suolo passa da un’agricoltura pulita”, sono stati tra gli altri la presidente di FederBio Maria Grazia Mammuccini, il docente di Agronomia della Scuola Sant’Anna di Pisa, Paolo Bàrberi, il ricercatore Ispra Lorenzo Ciccarese, il coordinatore del Comitato tecnico di FederBio Daniele Fichera, dopo i saluti del direttore dell’Orto Botanico Fabio Attorre e dell’assessora all’Agricoltura, Ambiente e Ciclo dei rifiuti di Roma Sabrina Alfonsi. Sono poi intervenuti Debora Fino, presidente Re Soil Foundation; Gianmaria Sannino, climatologo Enea; Stefano Ciafani, presidente Legambiente; Alessandro Polinori, vicepresidente Lipu; Barbara Nappini, presidente Slow Food Italia e Isabella Pratesi, direttore Conservazione WWF Italia. A moderare l’evento, la giornalista Valentina Petrini.

I commenti 

“I risultati del monitoraggio dimostrativo evidenziano che i dati relativi ai campi coltivati con il metodo biologico sono decisamente migliori rispetto a quelli coltivati in convenzionale a conferma che il bio è un metodo di produzione che favorisce la tutela del suolo e della biodiversità”, commenta Maria Grazia Mammuccini. “Le quantità di residui chimici di sintesi nei campi convenzionali è un dato di fatto, soprattutto per le produzioni intensive, dove si conferma l’urgenza di ridurre l’uso di pesticidi di sintesi chimica in coerenza con gli obiettivi del Green Deal europeo e per le quali il biologico può offrire soluzioni innovative sperimentate da anni con il biocontrollo. Ma abbiamo rilevato che, in alcune coltivazioni ‘di punta’, all’interno di aree vocate, anche nel convenzionale l’uso è molto limitato. In due situazioni, un oliveto in Puglia e un campo di frumento in Basilicata, le sostanze di sintesi erano addirittura assenti. Questo risultato ci incoraggia a pensare che il biologico stia cominciando a rappresentare un modello di riferimento per l’agricoltura in generale, un risultato importante delle politiche, soprattutto europee, per lo sviluppo dell’agroecologia. La crisi internazionale e la mancanza di materie prime rimettono al centro il ruolo fondamentale dell’agricoltura. Tutelare e monitorare la salute dei suoli è un investimento necessario per supportare l’intero sistema agricolo”.

“Il sistema di controlli ambientali e sanitari monitora la presenza di pesticidi negli alimenti e nell’acqua. Nel suolo, primo organo recettore delle sostanze chimiche di sintesi utilizzate nell’agricoltura convenzionale, la presenza di molecole potenzialmente dannose per l’ambiente non viene invece rilevata sistematicamente. Così facendo, ignoriamo quali siano i loro effetti sulla miriade di organismi che popolano il suolo e sulle funzioni ecologiche che essi svolgono. È necessario che si dia inizio a un monitoraggio continuo dei residui della chimica di sintesi nel suolo, con il supporto delle istituzioni di ricerca. E che la nostra priorità sia l’eliminazione dei pesticidi con una persistenza ambientale molto lunga”, afferma Paolo Bàrberi, della Scuola Sant’Anna di Pisa.

Una richiesta che discende anche dalle analisi effettuate in aziende agricole nella Pianura Padana. In un campo biologico e in uno convenzionale sono state infatti rilevate tracce di DDT e del suo metabolita DDE: si tratta in tutti e due i casi di una pesante eredità del passato, visto che l’insetticida è proibito in Italia dal 1978.

“Il suolo sano e ricco di biodiversità offre riparo a vertebrati, invertebrati, virus, batteri, funghi, licheni e piante che forniscono una moltitudine di funzioni e servizi ecosistemici a beneficio di tutti e di tutto. I suoli ospitano oltre il 25% della biodiversità del nostro pianeta. Più del 40% degli organismi viventi negli ecosistemi terrestri sono associati direttamente con i suoli, nel corso del loro ciclo di vita. Questa comunità diversificata di organismi viventi mantiene i suoli sani e fertili, regola molti processi biologici, chimici e fisici che portano alla produzione di alimenti e fibre o purifica il suolo e l’acqua. Il rischio è che i pesticidi danneggino la biodiversità contenuta nel suolo. In un grammo (una quantità contenuta in un solo cucchiaio) di terreno fertile ci sono fino a un miliardo di cellule batteriche, 200 metri di ife fungine, e una vasta gamma di organismi animali, come nematodi, vermi, insetti, che lo rendono vivo e fertile”, spiega Lorenzo Ciccarese, esperto Ispra.

Solo un suolo fertile può assicurare l’importantissimo servizio di assorbimento dell’anidride carbonica dall’atmosfera: l’Ipcc (il panel scientifico delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) calcola che il suolo sequestra il 30% di anidride carbonica che noi produciamo. L’uso intensivo dei campi agricoli, insieme al consumo di suolo a favore di infrastrutture e del tessuto urbano, ne sta già compromettendo la tutela e la preservazione.

Capitolo a parte riguarda il rame, un fungicida che gli agricoltori usano da secoli e che è consentito anche nel biologico. Le analisi ne hanno evidenziato la presenza in tutti i 24 campi analizzati. In quasi la metà dei casi, 5 su 12, ce n’era una quantità significativamente maggiore nelle aziende convenzionali; in 4 casi su 12 c’è una equivalenza tra bio e convenzionale e solo in 3 casi su 12 il rame nei campi biologici prevale significativamente sull’analogo convenzionale.

Qui la presentazione dei risultati