La Nuova Ecologia di giugno cerca la buona strada per tenere a distanza traffico e smog

Tra le inchieste del mese Venezia al bivio fra spopolamento e overtourism, diritti di stagione nelle terre del caporalato, e la giustizia infetta che oppone le multinazionali agli Stati. Poi lo studio sulla migrazione dei pesci verso i poli che potrebbe sconvolgere l’ecosistema marino.

Presentazione del numero in diretta Facebook oggi, 3 giugno, alle ore 16.00

Per mantenere la giusta distanza da smog e traffico, l’unica via è ridisegnare gli spazi urbani e favorire la mobilità sostenibile, così molte metropoli in risposta alla pandemia stanno immaginando un tessuto urbano futuribile e desiderabile. Qualcosa sta già cambiando, a dire il vero anche da noi, come racconta la storia di copertina del numero di giugno della Nuova Ecologia, Città vivibili, che racconta progetti e trasformazioni in atto di città europee e non, da Oakland a Liverpool, da Lima a Parigi. Ma se la pandemia ha acuito la consapevolezza della necessità di ripensare spazi metropolitani e mobilità, la questione rimane aperta: le città saranno abbastanza resilienti da vincere la doppia sfida dell’arrivo di nuovo cittadini e dell’emergenza climatica? Per ognuna, serve un disegno complessivo di sostenibilità ambientale e sociale, per rendere accessibili a tutti i trasporti pubblici, l’energia, l’acqua e le connessioni.

Per questo, una delle inchieste del mensile è dedicata a Venezia, una città che forse più di tutte in Italia ha bisogno di approfittare di questa fase per decidere da che parte andare. Svuotata dalla pandemia, la Serenissima appare fragile ma svela potenzialità oscurate dal turismo di massa e adatte a costruire un futuro diverso. Investire sul polo culturale già vivo intorno alla Biennale, per esempio, può dare respiro all’economia e creare posti di lavoro in un centro già colpito dall’acqua grande dello scorso novembre e schiacciato più di ogni altro da un eccesso di presenze turistiche.

Tra le inchieste anche i “Diritti a tempo” dei circa 400mila braccianti immigrati, che potranno con il decreto Rilancio ottenere un permesso di soggiorno della durata di sei mesi. Nelle terre del caporalato, dal Casertano alla Capitanata, alla Piana di Gioia Tauro, dove ci porta questo numero, anche se rimane difficile prevedere quanti lavoratori stranieri saranno trattati come esseri umani e non solo come forza lavoro, la speranza è che i diritti siano rispettati più di ieri. E c’è chi pensa che la fase che stiamo vivendo sarebbe dovuta servire non solo per regolarizzare queste persone ma per lasciarsi alle spalle un passato di sfruttamento ed emarginazione sociale: una situazione che, se non affrontata in modo radicale, rischia di amplificare annose disuguaglianze sociali, ampliando ghetti e lasciando mano libera alla criminalità.

Questioni di diritti e di diritto anche nell’inchiesta sulle richieste di danni presentati agli Stati da investitori stranieri grazie all’Isds (Investor-to-State dispute settlement) ideato negli anni 70 nell’ambito di Banca Mondiale. Oggi è una minaccia estesa su scala globale: mentre i governi sono al lavoro per combattere la pandemia e prevenire il collasso economico, le grandi imprese contrastano le misure emergenziali per scaricare sulla collettività i costi della crisi. I cavilli da sfruttare sono innumerevoli. Da scudo per gli investimenti, l’arbitrato internazionale è diventato arma per contrastare una vasta gamma di politiche pubbliche che limitano l’iniziativa privata. La gran parte degli oltre tremila trattati di libero scambio attualmente in vigore contiene una clausola Isds. Negli ultimi venticinque anni il numero delle cause è esploso: gli ultimi dati Onu parlano di 1.023 ricorsi contro 120 Paesi, due terzi dei quali passati in giudicato. La maggior parte delle sentenze ha visto prevalere le imprese, con un costo per i contribuenti di 110 miliardi di dollari. Una situazione sfuggita di mano.

A sfuggirci di mano potrebbe essere anche, se non fermeremo il riscaldamento globale, la sopravvivenza di intere porzioni di biodiversità marina, che per il momento migra verso i poli. Per capire le conseguenze del riscaldamento delle acque, infatti, uno studio dell’Università di Bristol ed Exeter ha esaminato 304 specie marine protette nella porzione del proprio areale più vicina al polo (rimasta più fresca) e nell’area meno favorevole sul versante in direzione equatore (diventato più caldo). Il pattern generale conferma la migrazione verso i poli e l’interpretazione dei risultati è purtroppo drammaticamente semplice: molti organismi marini non riescono ad adattarsi all’aumento della temperatura dell’acqua. Se dovesse verificarsi realmente un incremento di 1,5 °C della temperatura media dei mari, le specie si sposteranno sempre di più e con grande probabilità ci sarà una forte perdita di specie marine, con conseguenze drastiche sulla biodiversità e sulle attività legate alla pesca.

La rivista sarà presentata sulla pagina Facebook della Nuova Ecologia oggi alle ore 16.00. Introdotti dal direttore Francesco Loiacono, interverranno i giornalisti Giulia Assogna, Rocco Bellantone, Elena Comelli, Elisa Cozzarini e Francesco Paniè, il sociologo Marco Omizzolo e il responsabile mobilità sostenibile di Legambiente Andrea Poggio, che hanno partecipato a questo numero.